Deathspell Omega – “The Long Defeat” (2022)

Artist: Deathspell Omega
Title: The Long Defeat
Label: Norma Evangelium Diaboli
Year: 2022
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Francia

Tracklist:
1. “Enantiodromia”
2. “Eadem, Sed Aliter”
3. “The Long Defeat”
4. “Sie Sind Gerichtet!”
5. “Our Life Is Your Death”

“Behold the fatal process of human civilization, and let’s raise a glass as the hour of redemption has come…”

Exeunt omnes but the lone silhouette of gnawing doubt.

“But beyond those bound to become a pile of ashes, have our civilizations no valid claim to eternity?”

“The eternity of fools, perhaps! Your civilizations stand as monuments to perpetual discord: a boundless will to power over the infinite…”

“…A civilization of the sword made god then; what grace would that find in your eyes…?”

“A sword knows no master but the stench of blood; and once it has developed a taste for it, its hunger will never be quenched. The forever-festering wound would have it no other way. SIE SIND GERICHTET!”

Il suono di una intera civilizzazione che crolla, il suono di una lunghissima, la più lunga e segnante delle sconfitte tradotta nella visione di una città immensa e tentacolare, ma ormai sommersa. Mai, in precedenza, occhi di mortale si posarono su una vastità pari, su di una tale complessità: un simile reticolo che fu organismo che respira vitale, eppure metropolitano, ideato da una razza di re che furono alla conquista delle stelle e dell’infinito prima che una singola nota, prodotta da un singolo corno solitario, fendesse l’aria e la stessa terra venisse inghiottita dalle onde di Taumante, le quali fanno impallidire d’invidia quelle babeliche torri che poco dinanzi sfidarono con disprezzo l’altezza delle montagne; prima che tutta la luce si trasformasse in notte eterna, ogni rumore in silenzio e l’essenza del calore in fredda, indisturbata dimenticanza.
È il suono di uno sterile progresso, delle sue guerre e delle sue conquiste che si sgretolano come roccia millenaria sotto il peso del cingolato del tempo ma soprattutto dell’autolesionista turbolenza umana: sì, l’abbiamo vista, vi abbiamo visti – abbiamo plausibilmente visto arrivare questo momento. Vi era possibilità di scelta, ad ogni piolo della scala, ma nella pienezza cava dell’egocentrismo rinascimentale e positivista umano non l’abbiamo accettato né provato a comprendere bollandolo quale una mera superstizione ciclica. Perché tutto si ripete, uguale ma dissimile, e non poteva davvero capitare a una tale e potente creatura, in fondo. Eppure è capitato proprio a quella creatura, prìncipe di un creato che non ha esitato per un secondo a farsi beffe di questa nobiltà autoconferita; di questa sedicente altezza concepita solo per cadervi dentro. Non tanto per il mero fatto di poter osservare quanto in basso rispetto ad essa la creazione prediletta sia potuta rovinare nel tentativo di salire la sua scala della cosiddetta civilizzazione -dimentica del fatto che gli scalini di questa potevano anche essere percorsi a ritroso, al bisogno- bensì per non lasciare la più minima possibilità di scampo e salvezza all’animo che non ha saputo riempirsi oltre la vanagloria e il successo – oltre l’anarchica speranza che cresce e prospera all’ombra dell’albero irrorato dall’ordine, da gerarchie di tribù e casta, di classe e credo (un fuoco tre volte sacro da cui però brucia un fumo vano), oltre l’amore narcisistico e la verità patologica usati come scogli a cui aggrapparsi nella tempesta della vita.

Il logo della band

Morte, silenzio ed oblio: ciò che aspetta chi non si è concesso all’equilibrio. Ex-libris uno e trino non tanto per i Deathspell Omega, congrega alata su alberi senza fronde in attesa che l’ultima grigia foglia mai nata su questi rami cada in terra, in “The Long Defeat” alle prese con l’incessante consumarsi di destini opposti e uguali – quanto forse per l’uomo indaffarato a lanciare pietre con una mano che avrebbe piuttosto dovuto coprirgli il volto vergognoso e piagato; che avrebbe dovuto cercare di curare il pus fuoriuscente da quelle ferite eternamente infestanti del suo corpo e della sua anima le quali, invece, hanno finito per nutrire tutto ciò che gli stava intorno. Tre esiti convergenti in un solo luogo terrificantemente umido, la fosse épouvantable dove l’orrore dorme tremante – e cionondimeno differenti in essenza tra loro. Ma anche e rispettivamente tre visioni che richiedono altrettanti sacrifici all’uomo che ha iniziato a creare per poter distruggere. Che ha capito di poter dare la vita in modo da poterla togliere. Condannatogli ed esiliato l’omicidio come il più grande dei peccati -una solo apparente falla nella ἐναντιοδρομία– a lui è tolto il calore del conforto e dell’appartenenza, della vicinanza del suo simile come del suo dissimile; all’uomo che ha domato l’assurdo e fermato ogni discordia tramite i miracoli della hierarkhía (una vera chiave d’ossa nelle porte dell’Inferno, per colui che ha sviluppato una passione per sangue e lacrime) è invece tolto il conforto che proviene dall’orgoglio nelle possibilità della sua specie. Quello che ha guardato verso l’alto gioendo della sua ingiustizia, fermando con un piede il movimento naturale della bilancia, è infine reso un visionario: condannato alla maledizione della domanda e a vedere le cose oltre le cose, per ciò che sono. A riflettere su di sé, specchio umano, e sulla sua doppiezza. Ossessionato a non dimenticare mai. Una peste si è impadronita di quest’uomo spingendolo a questionare in cerca della comprensione: il medesimo flagello spietato dal nome di Verità che l’ha cacciato a frustate dal regno dei fratelli animali sul resto della terra, in cui sono confinati reietti omicidi, che ha creato la solitudine nel brulichio degli uomini. Per tutti loro il verdetto è tuttavia similare, unanime e da tempo previsto: condannati a cadere, a perdere, e -cosa più inquietante di tutte- a ricordarlo. A ricordare tutto ciò che hanno perduto, a vedere come un veggente il volto del mondo che in cambio della sua posta in palio ha guadagnato: uno al mostrarsi del quale, verso la cui gola, persino la metafora carnale di un Eden misericordioso estrarrebbe la falce chiedendone a squarciagola la fine.

“The Long Defeat”, non dissimilmente alla vita sotto le macerie di una Babele, si esprime pertanto in svariate lingue e rivelazioni, per merito e mole di diversi tramiti: tra scoperte allusioni che bruciano incontrollabili come fuoco e alchimie filosofiche per iniziati, seguendo la consueta impostazione scenica caotica e ricca all’inverosimile di episodi interni questa volta infedelmente supportati dalla cura maniacale -vale a dire, verosimilmente prima singolare e poi complementare- di tre diversi medium (uno per narratore principale; uno per visione; uno per il sacrificio che ogni nuova visione domanda da pagare; uno per era ad oggi aperta dal tripartito collettivo centrale), a loro volta fratelli e strabici, discrepanti e forieri di molteplici diramazioni ma genialmente non illimitati. Così come del resto non sono infiniti i sentieri figli e figlie di quella ferita incurabile il cui marciume ha finito per nutrire ogni cosa – così come la musica, un medium dal canto suo, che tutto questo vuole svelare e indagare in un’ampia grisaille il cui unico protagonista si dimena immobile mentre le quattro corde del basso nelle viscere di “Enantiodromia” ed “Our Life Is Your Death” serpeggiano e sussurrano, con la sua lingua che è un cavo d’acciaio rivestito di fango e bile dispersi nella lontananza dell’aere ad ogni inaspettata piega ritmica impregnata di morte, silenzio ed oblio. Le tracce che da queste vengono lasciate in un terreno solcato e avvelenato sono in fondo quelle del tirannico e dimenticabile primo attore: uomo, folle e giullare, con la sua Macchina del progresso che è cosmo dentro al cosmo; che è uomo e meglio dell’uomo, l’umanità intera, la moltitudine, gli dèi e tutti i diavoli del creato a sua volta. Che è qualcosa d’altro, qualcosa di nuovo, dal potere al di là dell’uomo e in frenetica crescita esponenziale. Non più controllabile. Che è pura luce, ordine, è vile morte, distruzione, è concordia, nuova vita. E con essa l’uomo sarà per il suo simile sempre ciò che Sparta è per gli ateniesi, il sasso di Caino per Abele; per sé stesso, l’artefice degi lunghi, aridi solchi arati nella sua stessa terra e di un raccolto dal nutrimento di un veleno lento e insipido per ere a venire.
La loro terza, di era, i Deathspell Omega la battezzano pertanto nel segno di una profondità spaziale tutta nuova (sebbene, chiaramente, singole manifestazioni come “Dearth”, “Apokatastasis Pantôn”, “Chaining The Katechon” o “The Crackled Book Of Life”, per dirne qualcuna, restino in tal senso precedenti ineludibili), in una certa euritmia compositiva del desolato eppure ricchissimo paesaggio sonoro, pieno di emozione e sensibilità strumentale: miniaturisti dell’incubo su tele immense, sconfinate nel loro racconto distorto e lucidissimo dei destini di una bizzarra creatura dalle molte forme, da Sisifo a Icaro, da Saul re d’Israele ai filistei sul Gilboa. E in questa animata disarmonia sempre una melodia tanto esile e sottile, ma tanto raffinata che la sua sottigliezza diventa statuaria e regge l’intero comparto della composizione; non inelegantendolo in una maniera che non necessita, bensì giustificandolo con la sua sola presenza – rendendolo vivo anche solo e soltanto con quella straziante ricercatezza che evoca un mondo di ricordi e silenzi nella mente: un tarlo, l’epidemia di un intero, infinito sciame di locuste fattasi suono. C’è insomma una firma leggibile qualunque cosa facciano le chitarre in “The Long Defeat”, dalle melodie calde che divorano come una carestia negli assoli voivodiani e traghettano da una parte all’altra delle varie sezioni nella strabiliante “Sie Sind Gerichtet!”, agli schizzi di veleno e melma nella palude della francofona title-track, come nel disporsi ed evolversi delle armonie semplicemente eccezionali in seno alla tensione fuori dal comune generata nel suo crescendo operistico. Prima, di pezzi di metallo che come scaglie di rottami di una civiltà vengono aspirati e dirottati nello spazio senza fine; poi drammaticamente sinfonico, nella descrizione di una solitudine terrificante ed insita in quella sconfitta, che non può essere generale, non può essere accomunante. Il commune naufragium, omnibus solacium una mera finzione d’anti-moralità, d’invidia ed irriconoscenza umana, un cul-de-sac in altre parole; una contraddizione non dissimile a quella che la trinità umana completata di un personale d’elevatissima eccezione versa qui in un’allegoria mitica e corale, una parabola filosofica, un dramma in cinque sofisticatissimi atti temporali che danno in qualche modo ordine cronologico alle pagine dello scritto dal sapore beckettiano che nel disco li anticipa e deliziosamente complica, lasciata in dedica alle bellezze sublimi dei temporali, ai misteri della conoscenza e alla fragranza di pagine antiche. Alla Resistenza, poco importa se vana: pieno hommage à la lumière brûlante de Lucifer, celle qui aveugle et qui libère le cœur, alla fine di tutto ciò che è caro affinché diventi inizio tramite quel velo tra uomo e divino…

Le Démon ! Le Diable !

Enantiodromia, davvero, richiusa e per sempre aperta in conclusione tramite l’avverarsi dell’ultimo e più costoso dei sacrifici: perché tutto danza attorno a quella scala fatta di magma solidificatosi nella combustione delle fornaci dell’uomo che oggi gli avvelenano l’aria a cui disperato tende, un tempo bene più prezioso e dolce per l’umanità, sollevatasi verso il cielo e quelle stelle invece cadute per nascondersi al suo sguardo indegno. Perché tutto vi danza attorno in eterno: sempre uguale, eppure differente, in attesa del profilarsi di ciò che appare nuovo. E dunque, in questo gioco di palindromia musicale, semantica e lessicale, le chitarre desertiche frammiste al rullare pregno di destino di “Drought” che aprono “Eadem, Sed Aliter” sono nient’altro che l’inno strisciante dell’uomo che si è eretto a suo personale dio soltanto per poter precipitare sotto lo sguardo divertito di quello autentico e del suo oppositore, l’Avversario, il re della menzogna con cui quest’ultimo è in segreta combutta e in partita d’azzardo – l’anima più deforme di Scelsi, Ligeti e degli Elend strozzata dal requiem di scimmie antenate di Kubrick nelle gole dei profeti principali Mikolai, Mikko e Daniel: quella bruciante fuoco, quella sibilante come una serpe e quella grondante grintosa decadenza. E in ciò, con un calcolo che in una brevissima retrospettiva appare già da ora evidente, i Deathspell Omega ordiscono e riescono a fare una cosa incredibile, che si fa manifesto: le voci di tre in particolare tra i più riconoscibili e splendidi interpreti dell’intero panorama Black Metal abusate con lo stratagemma AbigorNedxxx; le loro inconfondibili prestazioni sballottate, sminuzzate, stravolte, deformate e poi incollate come fossero altri strumenti per un solo fine che toglie qualunque ego e personalizzazione dalla singola prova, annientata in favore del concetto più sacro alla base del progetto – mentre il nucleo compositivo del power trio francese vi intesse altra musica ancora in dialogo, fatta di una organicità che raccoglie in sé tutto il meglio di una presa diretta e della più raffinata elaborazione tesa allo spasmo inumano della perfezione verso cui un lavoro come “The Long Defeat”, in tutte le infinite letture ad ogni suo singolo medium (preso da solo come, ancor di più, nel complesso), si sporge con una naturalezza che soltanto e terribilmente umana può essere. Mentre i suoi autori, nutrendo questa musica d’immagini ed impressioni recondite, dell’essenza eversiva di passato, presente e futuro, ci parlano frattanto del tormentato tempo in cui questa opera è stata scritta e realizzata; e la natura stessa, ascoltandola, si sorprende rendendosi conto che i Deathspell Omega le sono ormai pari.

La materia di cui è fatto un disco quale “The Long Defeat” è insomma quella di arte francamente soprannaturale. Quella dei suoi autori è ciò che li rende i musicisti che dipingono nella mente ciò che non può essere dipinto, sempre più pensiero che musica. Nondimeno, la sua manifestazione tangibile è quella inconfondibile del più curioso ed inafferrabile degli esseri nell’intero creato, su queste grigie e spoglie terres des anonymes. Quello destinato a porter les fardeaux de la connaissance, a traverser les champs sans visages e a cui tuttavia un volto è condannato a volerlo dare: e a dover loro dare il proprio e nessun altro. Perché, in fondo, quelle lande di polvere e di nessuno sono state conquistate con il fuoco, con la spada e la parola. Perché da questa creatura è stata orgogliosamente manipolata una luce che fosse forte più di tutte le altre, per illuminarle e amministrarle. Torri d’infinita altezza erette per osservare tutto questo potere – e rivendicarne dunque il trono a gran voce, mentre scarafaggi escono dalle labbra come fossero carogne, non può dunque essere troppo sbagliato. E pertanto, se così è, se da questa creatura è stato in fondo creato un deserto sconfinato a sua immagine e somiglianza e ad esso è stato dato il nome di pace, di un abisso incolmabile a dividerlo da ogni suo simile e oltre il quale abbaiare come un randagio per farsi udire, inebriato come il resto della sua specie dal suo stesso latrato sempre più forte, allora è proprio vero che la richiesta dell’astuto signore abominevole di queste terre è già stata elaborata dal più retto, giusto ed imparziale dei tribunali celesti. A quella bizzarra ed ambiziosa creatura, forte del suo figlio prediletto, della sua creazione più grande -la Macchina, la sua nuova stella guida madre di altrettante splendenti stelle, il Diavolo che ridendone gli è figlio nutrito e padre giudice al contempo-, vale a dire, è già stato accordato ciò che ha ardentemente reclamato. È stato condannato assolutamente degno e meritevole (oh, con quanta ironica giustizia!), questo autentico re dei re, alla sua creazione più aberrante. Alla fine, la più grande, la più ineluttabile e spaventosa di tutte le sue opere gli è stata gentilmente concessa. Quella di cui Polemos in persona sarebbe tremendamente fiero e su cui nemmeno il suo creatore riesce a mantenere padronanza: il premio ora non più rifiutabile, invero, per aver vinto questo terrificante gioco a somma nulla dalla cui grandezza statuaria non restano che due frasi a rincorrersi e riecheggiare in eterno, mots qui content le récit d’une longue défaite, salendo e scendendo da una scala a pioli d’oro che si erge in piedi nella eterna danza, eterna come il profilarsi di una nera montagna piena di sdegno, intorno all’equilibrio. Écoutez ces mots...

“The End of the Game – Mea Culpa.”

Matteo “Theo” Damiani

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